Pandemia da Covid19 – Anno Terzo

Ecco a seguire un articolo di ottimo giornalismo che conferma indirettamente la necessità di avere a disposizione il Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia e un’Archivio Informatizzato Sanitario Centralizzato indispensabile per conoscere in tempo reale l’andamento della pandemia, la valenza dei farmaci e/o di vaccini e/o delle cure. Piani e registrazioni essenziali per comprendere e combattere le pandemie. Buona lettura, Pier Luigi Ciolli

17 febbraio 2022 L’oscura «influenza russa» che potrebbe rivelare come finirà il Covid, di Sandro Modeo

Estratto da https://www.corriere.it/salute/malattie_infettive/22_febbraio_17/influenza-russa-covid-f23cfb0c-8f14-11ec-af55-d575edc6dd9d.shtml

Nel 1889, a Bukhara, prese il via una pandemia che venne chiamata «influenza russa». I morti furono un milione. Durò, tra varie ondate, 6 anni; a causarla potrebbe essere stato un coronavirus che conosciamo bene, perché oggi causa un «semplice» raffreddore. Succederà anche con il Covid?

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In un articolo del 5 giugno 2020, avevamo evocato il tema di una possibile «lezione» sull’andamento della pandemia di Covid nascosta in una oscura «influenza russa», risalente agli ultimi anni del XIX secolo. Lo avevamo fatto come tentativo di orientamento, come una scia luminosa nella nebbia.

Fino a quel momento, la ricerca disperata di invarianze epidemiologiche — di «precedenti» che aiutassero a comprendere modalità e durata della pandemia — aveva portato a comparazioni soprattutto con la Spagnola, producendo esiti sfocati e frustranti per vari motivi, a partire dallo iato che separa un ortomyxovirus influenzale (H1N1) da un betacoronavirus come SARS-CoV-2.

Una prima svolta avveniva con uno studio-spartiacque pubblicato su Science (14 aprile 2020; revisione 22 maggio) in cui una proiezione analitica sull’andamento di SARS-CoV-2 eleggeva a modelli — per maggiore prossimità molecolare — proprio due betacoronavirus umani «del raffreddore»: HCoV-HKU1 e, soprattutto, HCoV-OC 43.

Col «soprattutto» legato a un aspetto allora gregario: il fatto che secondo alcuni studi «eretici» (in parte tali rimangono) OC-43 potesse essere l’agente patogeno della pandemia (1889-95) a lungo classificata come «influenza russa», e che invece avrebbe potuto essere la prima pandemia da coronavirus; e in quanto tale, il miglior termine di paragone proiettivo per l’evoluzione di COVID-19. Sicuramente più di SARS-CoV (o SARS-1, 2003-04) o MERS-Cov (2012), outbreak per fortuna subito troncati.

Ora che in tanti ci tornano — vedi pezzo di Gina Kolata sul «New York Times» — e che quell’evocazione sembrerebbe assumere qualche senso, vale forse la pena riassumere e aggiornare la questione, anche per i nuovi dati e studi specialistici accumulati nel frattempo.

1. Cos’è stata l’influenza russa? E qual è stato il suo impatto?

Tutto comincia nel maggio 1889 a Bukhara (da Bukhari, uno dei più influenti studiosi-tradizionalisti islamici), città UNESCO dell’attuale Uzbekistan collocata lungo la via della seta (vi risiedono, tra 1261 e ’64, Niccolò e Matteo Polo, ultima tappa prima di arrivare alla corte di Kublai Khan). Lì o nelle zone limitrofe avviene, quasi certamente, lo spillover, il «salto di specie», il passaggio dell’agente patogeno dal bestiame all’uomo; dato confermato dalle tante epizoozie a carattere respiratorio (per esempio pleuropolmoniti) che avevano afflitto il bestiame nel ventennio precedente (cioè a partire dal 1870), esponendo i contadini al contatto delle secrezioni respiratorie, anche — se non soprattutto — durante gli abbattimenti degli esemplari malati. E da lì — attraverso i 200.000 km di rete ferroviaria dell’Impero Russo, ma anche sulle navi transatlantiche — l’epidemia si trasforma in breve in pandemia, raggiungendo Samarcanda in agosto, San Pietroburgo, Mosca e Kiev tra ottobre e novembre, l’intera Europa subito dopo, gli Stati Uniti il 18 dicembre, il «rientro» in Asia (India, Singapore, Cina) tra febbraio e maggio dell’anno dopo.

Nell’insieme, la pandemia mieterà oltre un milione di vittime (dato da riferire al miliardo e mezzo scarso della popolazione globale di allora), con distribuzione molto diseguale: tra 270 e 360.000 morti in Europa, 13.000 in America. Non è un caso, quindi, che la letteratura disponibile riguardi soprattutto il Vecchio continente, sia a livello di fonti primarie (straordinari i report delle gazzette polacche), sia a livello di studi e testi.

Vedi, su tutti, quello dell’autorevole storico della medicina Mark Honigsbaum dedicato all’Inghilterra, dove la pandemia lascia segni e cicatrici più che altrove per molti aspetti: le tante «morti celebri» (tra gli altri, l’Arcivescovo di York e uno dei successori al trono, il Duca di Clarence, figlio del Principe di Galles e nipote della regina Vittoria) ; l’incidenza dei «media» cioè dei giornali e della comunicazione (viene chiamata «l’epidemia del telegrafo»); le complicanze neuropsicologiche (l’alto tasso di suicidi e psicosi) e il più generale impatto psicosociale, tanto che si parla di «inexpressible dread»; l’elaborazione di tutto questo nello stesso ambito giornalistico, con vignette insieme sarcastiche e visionarie (come le tante che rappresentano il patogeno sotto forma di diavoli o demonietti all’assalto) o in quello letterario (con l’ atmosfera panica, urbana e rurale, che si riversa in narrazioni come Dracula o Il ritratto di Dorian Gray).

La sintesi iconica di tale impatto è la risposta alla «russa» di uno Winston Churchill quindicenne, che nell’autunno 1890 — tra la prima e la seconda ondata — vi dedica un curioso poema, in cui l’influenza è descritta come «vile, insaziabile flagello» che non fa distinzioni geografiche, né — come la «livella» di Totò — di nazionalità o di classe.

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Le cronache relative all’«influenza russa» sul Corriere del 5-6 dicembre 1889

2. Gli studi che hanno iniziato a indagare il mistero

Per molto tempo, la ricerca sulle origini dell’«influenza russa» si è basata soprattutto — come quelle sulle successive, 1898-900 e la Spagnola del ’18 — sulla «seroarcheologia», il rilevamento di anticorpi contro l’infezione presenti nei sieri degli anziani; criterio che ha portato a identificare i patogeni responsabili delle tre influenze, in ordine cronologico, in tre sottotipi dell’influenza A; rispettivamente H2, H3 e H1.

Tutto questo è stato poi confermato, a proposito della Spagnola, con l’identificazione di anticorpi di H1N1 in cadaveri riesumati e perfettamente conservati dal permafrost; verifica che ha condotto a un riesame dei dati anche per la «russa», ricondotta al sottotipo H3 (H3N8, tenendo aperta l’alternativa H2N2).

L’ipotesi contromano emerge nel 2005, quando — nel corso del suo PhD sui coronavirus, uno dei tanti sull’onda dei sequenziamenti genici di SARS-CoV — la biologa belga Leen Vijgen studia coi colleghi di Lovanio, in particolare Marc Van Ranst, proprio il virus umano di OC43, scoprendone le similarità con quello bovino (BCoV); e risalendo lungo l’albero comune — attraverso i calcoli dei tassi di mutazione che diano conto delle divergenze genetiche — trova il loro primo «antenato condiviso» intorno al 1890, momento del probabile spillover dal bestiame all’uomo.

Dopo quello studio-spartiacque, altri scienziati hanno ripreso l’argomento, su tutti Harald Brüssow, microbiologo svizzero Direttore della rivista Microbial Biotechnology e ora in pensione, che ha ulteriormente approfondito, anche in studi recentissimi, il rapporto tra coronavirus OC-43 bovino e umano e indagato la sintomatologia della «russa» in relazione all’influenza e ai coronavirus, basandosi sui report clinici tedeschi e inglesi, in particolare sul British Parsons Report (dal nome del medico che l’ha redatto, Henry Franklin Parsons). Come Brüssow, altri sono convinti che — se non la «pistola fumante» — quest’ultimo aspetto sia per molti versi risolutivo: vedi i contributi dei ricercatori danesi Lone Simonsen e Anders Gorm Pedersen (2020), che hanno anche confermato la datazione approssimativa della «divergenza» filogenetica (circa 130 anni fa) tra OC-43 nel bestiame e nell’uomo.

3. Le analogie tra «influenza russa» e Covid

A parte l’origine zoonotica (là il bestiame, mucche e/o cavalli, qua i pipistrelli), certe possibili sovrapposizioni nella «cadenza» epidemiologica, peraltro ancora da approfondire (le «cinque settimane» dei cicli tra il paziente 1 e il picco prima del plateau e della discesa) e nella pressione sociosanitaria (vedi, trai i tanti esempi nelle capitali europee colpite dalla «russa», le baracche nei cortili degli ospedali francesi sopraffatti), il versante più consistente della comparazione tra HCoV-OC-43 e SARS-CoV-2 è proprio quello clinico-epidemiologico.

Su tutto, colpisce il pan o politropismo virale (evidente già a livello di virologia veterinaria, cioè studiando BCoV), che produce non solo sintomi sovrapponibili a altre patologie di origine virale o batterica (febbre alta, emicrania, rinorrea), ma soprattutto anosmia-ageusia (perdita di gusto e olfatto), congiuntivite, polmoniti atipiche e sindromi neuropsicologiche le più varie. Ma colpisce, in secondo luogo, anche la «curva» di mortalità, molto più simile alla «J-shaped» (bassa nei giovani, alta negli anziani) che alla «U-shaped» influenzale (alta nei più giovani e nei più anziani).

Merita una zoomata, in questo contesto, il raffronto neuropsicologico e neuropsichiatrico, avvicinabile attraverso lo «strano caso» di Lord Rosebery, al tempo della «russa» Primo Ministro britannico.

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Il 25 febbraio del ’95, durante un banchetto del Partito Liberale a Westminster, Rosebery ha un collasso nervoso (più tardi ricondotto a un «attacco influenzale») e viene portato di corsa a casa, a Berkeley Square; quattro giorni più tardi, rassegnerà le dimissioni, ritirandosi a Epsom, nel Surrey, senza riapparire più in pubblico fino al maggio successivo. Sulla patologia e i suoi sintomi (su tutti, una «fatigue» e un’insonnia invalidanti) fioccheranno le interpretazioni più disparate: il medico personale parlerà di «squilibrio degli organi digestivi», gli amici di stress e/o depressione legati alle difficoltà di mediazione politica e al lutto non superato per la morte della moglie Hannah de Rothschild, cinque anni addietro; altri arriveranno a ipotizzare, in teorie proto-psicanalitiche, un’omosessualità malvissuta o elaborata (peraltro in un intreccio di frequentazioni di cui è parte Oscar Wilde).

Alla fine, il caso di Rosebery si rivelerà invece come una delle tante testimonianze del tempo sui danni longue durée di HCoV-OC-43, sorta di antefatto di long-Covid.

Del resto, quanto inafferrabile ed erratica sia quella patologia lo capisce subito un medico specialista della gola, Sir Morrell Mackenzie, quando la descrive come «un Proteo di malattie, un disturbo che assume così tante forme da non sembrare una sola, ma il riassunto di tutte le malattie».

4. Le prospettive: quanto durò la «russa» (e quanto durerà il Covid)

Come riassume Gina Kolata nel suo «giro d’orizzonte», sulla riconduzione della «russa» a HCoV-OC43 il fronte degli studiosi è attualmente diviso: i più favorevoli sono i virologi e i microbiologi, Brüssow in testa, con qualche eccezione (Peter Palese dell’Icahn School of Medicine al Mount Sinai di New York, tra i massimi studiosi della Spagnola); mentre gli storici sono più divisi, tra probabilisti a diverse gradazioni (lo stesso Honigsbaum, Tom Ewing del Virginia Tech, Scott Podolsky dell’Harvard Medical School), altri che parlano di «interessante speculazione» (Arnold Monto dell’Università del Michigan), altri ancora decisamente scettici (Frank J. Snowden di Yale, autore di una recente storia globale delle epidemie, e J. Alexander Navarro, di nuovo del Michigan, altra auctoritas sulla Spagnola).

Tra gli storici, però, l’unico della lista ad aver approfondito sul campo è Ewing, con la disamina di dati (per esempio lo State Board of Health del Connecticut) che confermano la curva J-Shaped delle vittime.

Mentre in futuro, ricorda la Kolata, prove o smentite ulteriori potrebbero arrivare dall’estrazione-analisi di frammenti di tessuti polmonari di vittime della «russa» (dai «barattoli di campioni» di musei e scuole mediche).

Comunque sia, l’inserimento di HCoV-OC-43 tra i virus del raffreddore nel citato studio epidemiologico predittivo di Science è stato quanto mai opportuno.

La «russa» è durata circa sei anni, con le vittime concentrate per lo più nel primo anno e mezzo e recidive sempre più blande, fino al passaggio allo stato endemico e alla conversione di un virus respiratorio severo in uno da «banale» raffreddore (con le virgolette a indicare come anche in quella veste rappresenti comunque, per anziani e immunodepressi, una complicanza); nello studio di Science (che, come detto, considerava anche altri virus ma era modulato soprattutto su OC-43) si disegnava una parabola con possibili recidive fino al 2025, cioè non dissimile.

Attualmente, SARS-CoV-2 parrebbe evolvere in quella direzione, come dimostrerebbero (al netto dei vaccini, di cui al tempo della «russa» non si disponeva) i tratti microbiologici ed epidemiologici di Omicron e probabilmente di Omicron 2 : il passaggio allo stato endemico — se non verso il raffreddore — sembrerebbe raggiunto.

Rimane sul campo (a parte l’eventualità improbabile, ma non impossibile, di varianti più aggressive) lo scenario di un SARS-CoV-2 «simil-influenzale», con la necessità di vaccinazioni annuali.

Non resta che sperare, quindi, che il parallelo funzioni fino in fondo: che un COVID-19 «simil-influenzale» lo sia nel senso della «cosiddetta» influenza russa.

Le fonti

La migliore analisi storico-sociale dell’«influenza russa» è nel testo di Mark Honigsbaum (Università di Zurigo), A History of the Great Influenza Pandemics: Death, Panic and Hysteria, 1830-1920, Bloomsbury, 2014, cap. 2-3-4-5 (pp.32-179).

Lo stesso Honigsbaum è tornato di recente sul tema con diversi articoli: v., ad esempio, Taking pandemic sequelae seriously; from the Russian Influenza to COVID-19 long-haulers, The Lancet, 31 ott.-6 nov. 2020, sulle complicanze delle due patologie in longue-durée.

Lo studio epidemiologico predittivo su COVID-19 cui ci si riferisce è quello di Stephen M. Kissler et al. Projecting the transmission dynamics of SARS-CoV-2 through the postpandemic period, Science 14 aprile 2020 (versione rivista il 22 maggio).

Il contributo-spartiacque sulla riconduzione molecolare dell’influenza russa a HCoV-OC-43 è quello di Leen Vijgen et al. Complete genomic sequence of human coronaviorus OC-43: molecular clock analysis suggests a relatively recent zoonotic coronavirus transmission event, Journal of Virology, febbraio 2005.

Tra i contributi successivi, il più rilevante è quello di Harald e Lutz Brüssow, Clinical evidence that the pandemic from 1889 to 1891 commonly called the russian flu might have been an early coronavirus pandemic, Microbial Technology, 13 luglio 2021.

L’articolo di Gina Kolata è uscito sul New York Times, 14 febbraio 2022.

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